In Bruges

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In Bruges è, oltre che un originale pastiche di generi (la black commedy, il noir, l’action, il racconto pulp), soprattutto un film che racconta e descrive una città magnifica.

Chi è stato a Bruges non può negarne il fascino e la sua dimensione assolutamente fuori dal tempo e dallo spazio: il bellissimo centro storico medievale, i canali in cui nuotano centinaia di cigni, i castelli e le torri, sono dei veri e propri portali per altre epoche ed altri mondi. Ecco quindi che una vicenda altrettanto surreale, folle ed assurda come quella raccontata nel film di Martin McDonagh (due gangster inglesi vengono “esiliati” dal loro boss a Bruges dopo che uno dei due ha, accidentalmente, ammazzato un ragazzino) non poteva che essere collocata, geograficamente, in un luogo altrettanto al di fuori del reale come Bruges.

Una scelta che si rivela azzeccata per due motivi: perchè risolleva le sorti di un film che altrimenti sarebbe stato l’ennesimo noir d’imitazione tarantiniana (dialoghi/monologhi su argomenti assolutamente slegati dai temi del film, una violenza assurda e fracassona, personaggi caratterizzati all’eccesso, come nemmeno nei fumetti), e soprattutto perchè regala allo spettatore alcuni splendidi scorci di una delle città più belle d’Europa e, forse, del mondo: un luogo rimasto fermo nel tempo, in cui ci si aspetterebbe di incrociare per le strade cavalieri e principesse. Come succede a Ray (il personaggio interpretato da Colin Farrel, che per tutto il film cerca in ogni modo di scappare da “questa cazzo di Bruges”, in uno dei leit motiv più divertenti di tutta la pellicola) che, nella sequenza finale, ormai morente, vede scorrere davanti ai suoi occhi i membri del cast di un film in costume, in una serie di immagini in cui la realtà del mondo in cui viviamo (fatto di morte e di violenza, temi che permeano tutta la pellicola di McDonagh) si fonde con la finzione del mondo cinematografico e con la magia di un luogo rimasto fermo nel tempo.

Il viaggio non finisce mai

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“Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione….La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre”.

Josè Saramago, Viaggio in Portogallo

 

I mondi di Lisbona

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Lisbona ha una peculiarità che pochi altri luoghi nel mondo posseggono: e cioè che ogni suo quartiere è un universo a sé stante, un microcosmo, un unicum con le sue caratteristiche proprie e ben delineate. E così, perdendosi tra le vie della capitale portoghese, al viaggiatore pare di muoversi tra città, paesi, nazioni differenti; di vivere nello stesso momento più vite, più esistenze.

Alfama è il quartiere più antico della città, nonché l’unico ad essere sopravvissuto al terribile terremoto che devastò la capitale Portoghese nel 1755, ed è caratterizzato da un pittoresco ed affascinante labirinto di strade e di vicoli che mi ha ricordato tantissimo il centro storico di Napoli. Non ci si può far mancare una visita al Castello di Sao Jorge, o una serata in un locale del centro passata ad ascoltare dal vivo le note malinconiche del fado portoghese, magari mentre si mangia un ottimo baccalà (piatto tipico di Lisbona) o mentre si beve un bicchiere di Porto.

Completamente diverso da Alfama è invece il quartiere del Bairro Alto, con i suoi locali vivaci, i giovani sempre per strada a bere e far casino: anche qui ci si può perdere passeggiando per strada, ammirando le facciate piastrellate dei palazzi, girando per i vicoli in cui si muoveva Amadeu de Prado, personaggio immaginario del romanzo Treno di notte per Lisbona, oppure andando a mangiare un ottimo arroz de marisco al Cervejaria Trinidade, pittoresco ristorante costruito all’interno di un vecchio monastero. Una delle peculiarità di Lisbona sono i miradouros: ossia i belvedere da cui è possibile ammirare tutta la bellezza della città in un solo colpo d’occhio (e che sono numerosissimi per via del fatto che la città portoghese si sviluppa su 7 colli). Il più affascinante tra questi si trova proprio al Bairro Alto, ed è il Miradouro Da Graca: andarci sul tardi, dopo cena, ad ammirare la capitale illuminata nella notte, è un’esperienza unica.

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Attraverso l’Elevador Da Gloria è possibile vincere il dislivello che c’è tra il Bairro Alto e la Ciudad Baixa: qui, dalla Rua Augusta si raggiungono le sponde del fiume Tago, attraversando grandi piazze (il Rossio, piena di bar e locali eleganti, la Praca do Commercio, che si affaccia direttamente sul Tago) e ampie vie disposte a scacchiera: muovendosi per questo quartiere moderno, elegante, ricostruito completamente dopo il terremoto del 1755, si può immaginare di passare davanti al bar dove Pereira, protagonista dello splendido romanzo di Antonio Tabucchi Sostiene Pereira, sorseggiava la sua limonata piena di zucchero pensando al giovane rivoluzionario Monteiro Rossi e alla sua lotta contro la dittatura di Salazar. Per avere una bella vista dall’alto della capitale portoghese, si può pensare di fare un giro sull’ Elevador de Santa Justa, uno dei tanti “ascensori” che permettono di muoversi tra i tanti “piani” di Lisbona.

Il Chiado è invece il quartiere “intellettuale” di Lisbona: qui, seduto al tavolo di qualche bar, il poeta Fernando Pessoa era solito comporre le sue poesie. Un’esperienza da non farsi mancare è quella di cenare al ristorante Cabacas, dove è possibile gustare un’ottima carne servita ancora cruda accanto a una lastra di pietra rovente, dove l’avventore può cuocerla come meglio gradisce (ovviamente accompagnando il tutto con vino rosso e patatine fritte).

Belem è un quartiere costruito in uno stile a metà tra barocco e mudejar, dove è possibile visitare lo splendido monastero de Los Jeronimon, arrampicarsi sulla Torre di Belem, da dove partivano le navi dei grandi esploratori portoghesi del ‘400 (cui è dedicato un gigantesco monumento proprio di fronte al monastero, a ridosso del fiume Tago); senza farsi mancare ovviamente una capatina alla pasticceria dove, secoli fa, fu inventata la ricetta dei pasteis de belem, deliziosi dolcini di pasta sfoglia cotti al forno e ripieni di crema pasticciera: ancora oggi questo luogo attrae ogni giorno migliaia di turisti (ma anche di portoghesi) che si siedono ai tavolini a gustare questi sublimi pasticcini.

Ad Almada, una lingua di terra di fronte Lisbona, attraverso il Ponte del 25 Aprile (data in cui la rivoluzione dei garofani mise fine, definitivamente, al regime di Salazàr, restituendo al Portogallo la sua democrazia) è possibile raggiungere il Chirsto Rei, l’immenso cristo in pietra che con le sue braccia spalancate sembra voler abbracciare tutta l’immensità della capitale portoghese: salite fino in cima al Chirsto, e avrete una visuale splendida della città di fronte a voi.

Questa è Lisbona: una città che è un insieme di mondi distanti anni luce gli uni dagli altri: ma state tranquilli, questi anni luce possono essere coperti in pochi istanti, basta salire sul magico Tram 28 e lasciarsi trasportare in mezzo ai segreti e alle storie di questa città unica al mondo.

(Photo Credit: IAN ROMAN/Volvo Ocean Race)

The Grey

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« Ancora una volta nella mischia. Nell’ultima vera battaglia che affronterò. Vivi e muori in questo giorno. Vivi e muori in questo giorno. »

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The Grey non tratta direttamente il tema del viaggio, eppure ho deciso di scriverne su questo blog perché è comunque un film con una storia (i pochi sopravvissuti ad un disastro aereo devono vedersela con un branco di lupi affamati) ed un’ambientazione (i ghiacciai dell’ Alaska) da “fine del mondo”.

Si tratta, oggettivamente, di un film “piccolo” (distribuzione limitata, budget minimale), eppure a suo modo potentissimo, sia dal punto di vista dei contenuti (il film, intriso di una malinconia e di un cinismo esasperanti, è un’acuta e intelligente descrizione delle relazioni tra gli uomini, della convivenza civile, ma anche una riflessione laica sulla Natura, l’Amore e l’Amicizia), che da quello visivo (si pensi anche solo alla bellissima scena in cui, nel buio della notte, appaioni gli occhi di decine di lupi affamati che fissano minacciosi le loro prede).

Ottimo il lavoro di regista Joe Carnahan, che riesce a mostrare in tutto il loro splendore gli spazi sconfinati delle terre e dei ghiacciai dell’Alaska; uno dei rischi che infatti si corrono quando si gira un film così “figlio” dei luoghi in cui è ambientato, è quello di non riuscire a coglierne lo spirito, l’essenza; Carnahan lo fa invece alla grande, come dimostra la sequenza della morte del personaggio interpretato da Frank Grillo, che preferisce, ad una vita grigia e monotana nel mondo civilizzato, lo spegnersi guardando le vette innevate delle montagne dell’Alaska.

Diario di viaggio islandese – Parte 4: La capitale, l’Ovest e il ritorno a casa.

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24/04/2014

La capitale

In poco più di 3 ore da Akureri raggiungiamo nuovamente Reykjavik: in 4 giorni abbiamo costeggiato il sud, l’est e parte del nord dell’Islanda, e ora torniamo al nostro “punto di partenza”.

Reykjavik è una cittadina simpatica, che tutto sembra meno che una capitale: è infatti minuscola e, non ha affatto l’aspetto di una metropoli; passeggiare per le sue stradine è piacevole, e la vista della città dall’alto del campanile della chiesa è un’esperienza da fare, per via dello spettacolo di colori costituito dai tetti delle case del centro. Le cose più particolari di Reykjavik sono indubbiamente i bar, alcuni arredati come dei salottini inglesi, altri come tavole calde americane, in cui è possibile rilassarsi sorseggiando una tazza di caffè o assaggiando una fetta di torta (fidatevi, gli islandesi con dolci e torte ci sanno fare davvero), leggendo uno dei libri delle biblioteche che questi bar mettono a disposizione, o svagandosi su internet grazie alla gratuita connessione wi-fi presente praticamente ovunque. E’ in due di questi bar che trascorriamo il pomeriggio, per poi andare a comprare qualche pensierino per casa, e scattare la foto di rito presso il monumento della nave vichinga che campeggia sul lungomare, simbolo della capitale Islandese.

La sera saliamo fin sul The Pearl, una struttura da cui si può apprezzare una bella vista di Reykjavik di notte; poi, dopo esserci persi nei boschi alla sommità della città, approfittiamo del passaggio di una signora che, vedendoci spaesati e sul punto di una rissa (Banchetto è visibilmente incazzato con Memole che, sadicamente, ci sta facendo girovagare da ore senza meta, probabilmente con l’intento di sopprimerci dopo che le abbiamo rotto le scatole per quasi una settimana) ci offre gentilmente uno strappo a casa.

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25/04/2014

L’ovest

Rispetto al nostro programma originario, abbiamo guadagnato un giorno di viaggio (un po’ per il ritmo forsennato con cui abbiamo visitato i luoghi,un po’ grazie alla guida sportiva con cui ho affrontato le statali islandesi) e decidiamo di impiegarlo vistando, in una toccata e fuga, un po’ di ovest islandese.

La prima tappa è la spiaggia di Longujorur: un luogo che ad una prima impressione può sembrare abbastanza ameno, ma che in realtà possiede il fascino che aveva anche la spiaggia nera di Reynisfiara: sembra infatti di essere ai confini del mondo, con la spiaggia brulla e sabbiosa che si estende a perdita d’occhio, davanti solo il mare e alle spalle gli immensi fiordi dell’ovest dell’Islanda. Tocca poi ad Arnarstapi, dove è possibile camminare in bilico su delle enormi rocce a strapiombo sull’oceano che sono il rifugio di numerosi uccelli; da queste birds cliff si mescolano i suoni del mare che s’infrange sulle scogliere e il canto di uccelli e gabbiani che a centinaia popolano queste zone. Se si ha fortuna, e si è nella stagione giusta (purtroppo, non è il nostro caso) qui si possono ammirare gruppi di Fratercula Artica, meglio noti come “Pulcinella di mare”, il tipico volatile islandese.

A pochi chilometri, nel minuscolo villaggio di Hellnar, è possibile fermarsi in un delizioso caffè che affaccia proprio di fronte ad una scogliera, dove è possibile gustare un tè, prendere un caffè, o pranzare, come facciamo noi, con una deliziosa e sostanziosa zuppa di pesce. Il luogo è davvero incantevole, l’atmosfera di pace assoluta.

Infine, l’ultima tappa è Bjarnharhofn, una cittadina famosa (pare in tutta l’Islanda) per un unico motivo: è sede di un museo sugli squali che è una delle maggiori attrazioni nazionali. Immaginate quindi con che entusiasmo mi appresto ad entrarvi, visto che adoro gli squali e in generale tutti i predatori marini! Peccato che il museo consista in un ensamble di oggetti tutto sommato anche interessanti ma ben poco attinenti con gli squali: attrezzi da pesca, ossa di grossi pesci, oggetti vari e animali impagliati; e un vichingo di 250 chili che ci spiega come si cacciano gli squali e come si cucinano. L’unica cosa positiva è che possiamo assaggiare la carne di squalo: un’esperienza nuova e quindi positiva certo, ma il sapore è davvero orripilante! Fuori facciamo qualche foto divertente in una struttura di legno, dove la carne di squalo è lasciata a essiccare, poi ci rimettiamo in macchina e, lasciandoci alle spalle l’ovest dell’Islanda, torniamo verso la capitale.

26/04/2014

Saluti

Quando io e Banchetto, salutata Memole e la sua accogliente guesthouse, ci dirigiamo il mattino dopo verso l’aereoporto di Keflavik, pronti per tornare a casa, già sentiamo la mancanza di questa terra unica, magica. L’Islanda non può non restarti nel cuore, specialmente se si è amanti di posti selvaggi in cui la natura è rimasta intatta, incontaminata da secoli; posti di una bellezza tale da farti dimenticare i lati negativi di una vita ai confini del mondo (distanze allucinanti, trasporti e spostamenti difficili, poca vita “sociale” come la intendiamo noi) e di farti desiderare di tornarci già quando li stai guardando scomparire via, mentre un’aereo ti riporta a casa.

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Diario di viaggio Islandese – Parte 3: Il Nord

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22/04/2014

Nel nostro viaggio verso nord, la prima tappa è la regione termale di Namaskard, una vallata disseminata di piccoli geyser e di fanghi ribollenti, il cui terreno è di un colore arancione che rende l’ambiente molto simile a quello che si immaginerebbe di trovare andando in giro per Marte (le figure che si aggirano in mezzo ai fumi e alle esalazioni sembrano alieni che vagano per un pianeta sconosciuto). Subito dopo sembriamo passare da Marte alla Luna: la tappa successiva è, infatti, Dimmuborgir, (che si trova subito dopo Myvatn), un parco disseminato di rocce vulcaniche che ricordano molto quelle del satellite terrestre. Anche qui la camminata non è da poco, e sono protagonista di una simpaticissima gag quando, per mostrare a Memole come NON cadere sul terreno scivoloso e ghiacciato, metto un piede in fallo e cado col sedere a terra in mezzo alla neve. Dopo essere stato deriso dai miei compagni, aver scattato diverse foto al paesaggio lunare che ci circonda, e aver incontrato un gruppo d’italiani che sta facendo il nostro stesso giro con l’associazione Avventure nel mondo, finiamo il nostro devastante tour del parco e torniamo verso Myvatn, dove trascorreremo la notte. Prima peròci fermiamo a scattare alcune foto al lago che dà il nome alla città,percorrendo e costeggiando enormi crateri che sorgono nel mezzo del lago ghiacciato, e dalla cima dei quali si gode di una spettacolare vista delle montagne che, in lontananza, delimitano l’estremo nord dell’Islanda.

Dopo essere andati a posare le nostre cose alla guesthouse di Stong ci dedichiamo un po’ di relax: il Myvatn Natural Bath è costituito infatti da tre piscine termali (a tre diverse temperature: una tiepida, una calda e una bollente) collocate in mezzo alle montagne islandesi. Per me che non ero mai stato in una spa o in un bagno termale, è un’esperienza quasi mistica: nel gelo del nord dell’Islanda, starsene beatamente a mollo nell’acqua bollente è una cosa che non dimenticherò molto facilmente. Certo, non dimenticherò molto facilmente nemmeno il terrore che ho provato quando, uscito in costume dagli spogliatoi, sono stato preso dal panico perché non sapevo in quale delle tre piscine dovevo tuffarmi (poco prima, infatti, il bigliettaio del luogo mi aveva terrorizzato dicendomi che, se volevo evitare uno shock termico, dovevo assolutamente entrare prima nella piscina più fresca,). Credo che chi mi abbia visto saltellare come un folle tra una piscina all’altra, non sapendo in quale dovevo gettarmi per prima, con meno 10 gradi nell’aria, si sia fatto delle grasse risate.

Dopo diverse ore a mollo, decidiamo che è ora di tornare alla guesthouse: qui ceniamo in una cucina a dir poco indegna, sporca come ne ho viste poche in vita mia (e di ostelli osceni modestamente ne ho visti parecchi), il tutto arricchito da tre giapponesi che, orrore, tirano fuori dal frigo un piatto di pasta cucinata precedentemente e poi congelata (e che quindi intanto si è tramutata in una massa informe e durissima), che scongelano in padella. Guardarli che gustano quest’orrore istiga me e i miei due compagni di viaggio a vomitare, poi a scappare via.

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23/04/2014

Il 23 aprile è il giorno dedicato alle cascate: la prima è Dettifoss, uno spettacolo della natura che è possibile raggiungere dopo aver parcheggiato la macchina a un paio di chilometri di distanza e aver percorso il tragitto a piedi in mezzo ad una neve altissima. Ma lo spettacolo cui si assiste vale assolutamente lo sforzo e la fatica fatti: Dettifoss è la più grande cascata d’Europa, e lo spaventoso scrosciare delle acque ci fa sentire piccoli piccoli in confronto allo spettacolo della natura che ci si sta davanti. Qui vado incontro alla mia seconda (e ultima, fortunatamente) caduta del viaggio, volando nel fango e inzaccherandomi di terriccio marrone tutta la parte destra del pantalone.

Facciamo quindi tappa a Husavik, che ci viene spacciata per una “grande città portuale” da un’amica islandese di Memole: chiaramente gli islandesi non hanno una concezione reale di “ grande città” (o forse ce l’hanno, solo diversa dalla nostra). Husavik è, infatti, un piccolo paesino con annesso un porto abbastanza importante, ma non vale la pena spendervi più di una mezz’ora. Io, Memole e Banchetto ne approfittiamo per mangiare il nostro pranzo a sacco (ovviamente: panini con Lamb e formaggio spalmabile) e per fare una scorta non indifferente di birre islandesi e di sidro, tipica bevanda alcolica di questo Paese. Mezzi ubriachi (compriamo il sidro per la sera ma ce ne beviamo qualche litro prima di ripartire) puntiamo verso Akureri, prima città del nord dell’Islanda, dove pernotteremo prima di tornare l’indomani a Reykiavik. Sulla strada però visitiamo l’ultima cascata del nostro viaggio: Godafoss, meno imponente di Dettifoss, ma dal punto di vista naturalistico altrettanto spettacolare. Durante le fotografie di rito questa volta è Banchetto a cadere rovinosamente, quando non si accorge che sta camminando su una lastra di ghiaccio sul punto di rompersi: cosa che, infatti, accade, per il giubilo e le risate mie e di Memole.

Akureri è una città abbastanza grande, e la sera andiamo a mangiare in un pub in stile americano vicino al mare, dove ci strafoghiamo di hamburger (non si direbbe, ma pare che gli islandesi siano famosi anche per la carne). Qui incrociamo di nuovo gli italiani del giorno prima, disperati perché stanno cercando, senza successo, una discoteca o un locale dove trascorrere una notte brava (hanno chiaramente sbagliato nazione o, addirittura, viaggio!), poi di ritorno in ostello ci ubriachiamo col sidro e la birra comprati nel pomeriggio. Quindi a nanna, pronti a riprendere la strada verso sud l’indomani.

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Diario di viaggio Islandese – Parte 2: Il sud e l’est

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20/04/2014

Il Sud

Dopo le prime due notti trascorse a Reykjavik, io, Memole e Banchetto ci mettiamo  in marcia: destinazione il sud dell’Islanda, per poi proseguire costeggiando l’est dell’isola, toccarne la parte del nord e tornare nuovamente a Rekyavik, il tutto seguendo sempre la statale 1.

La prima tappa obbligata della giornata è la cascata di Seljandsfoss, meno imponente di altre che vedremo in seguito, ma a suo modo unica nel suo genere, in quanto è una delle poche cascate che è possibile “attraversare”, grazie a una rampa di scale di legno e un percorso un po’ accidentato in mezzo alle rocce. Ne approfitto per fare una fotografia quasi sotto la cascata, dall’interno, e per poco non mi faccio il bagno a causa di una folata di vento improvvisa. Tocca poi alla cascata di Skogafoss, che si può ammirare sia dal basso, guardando con il naso all’insù l’imponente massa d’acqua che si schianta fragorosamente al suolo, sia dalla cima della collina che le sta di lato. Entrambe le cascate mi colpiscono molto per via del contesto in cui sono collocate (natura incontaminata, il nulla che si estende a perdita d’occhio intorno a noi) ma di questa giornata due cose mi rimarranno impresse più delle altre: la prima è la spiaggia nera di Reynisfiara, vicino alla città di Vik, in cui ammiro l’Oceano che, infuriato, si schianta su degli scogli appuntiti che fuoriescono dal mare come se fossero delle lance puntate verso il cielo, il tutto mentre un vento gelido e freddo sferza il mio viso; e poi il susseguirsi di paesaggi e di climi diversissimi tra loro che contraddistingue il sud dell’Islanda: rocce nere che ricordano quelle di un paesaggio lunare, distese infinite di ghiaccio e neve, immense montagne rocciose che sembrano toccare il cielo chilometri e chilometri di rocce ricoperte da un muschio verdissimo, il tutto che si sussegue senza alcuna soluzione di continuità, dando al viaggiatore l’idea che si stia muovendo addirittura tra continenti diversi.

A sera, ci rechiamo nel cottage sperduto in mezzo ai fiordi (la località è Oraefi, e il cottage è il Litla-Hof) che Memole ha prenotato per noi, nei pressi del ghiacciaio di Vatnajokull. Il luogo è davvero incantato, immerso nel silenzio e nella pace più totali, e la proprietaria è un’anziana signora che viene colta da un insano terrore ogni volta che è costretta a parlare in inglese (terrore che si manifesta attraverso degli attacchi spastici durante i quali muove d’improvviso la testa verso destra, spaventando non poco me e Banchetto).

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21/04/2014

Verso Est

Dopo aver dormito nel delizioso cottage Litla-Hof, e aver festeggiato una Pasqua a dir poco originale (se qualcuno, 3 anni fa, mi avesse detto che avrei aperto un uovo di pasqua nel bel mezzo delle montagne del sud dell’Islanda lo avrei preso per pazzo) io, Memole e Banchetto riprendiamo il nostro viaggio. La prima tappa è il parco di Skaftafell: qui facciamo un bel po’ di sano trekking, toccando prima la cascata di Hundafoss e poi quella di Svartifoss. Lungo il percorso incontriamo un gruppo di francesi che fa il nostro stesso percorso con tre figlioletti di non più di 4 anni: ecco, è così che andrebbero cresciuti i propri figli, a furia di trekking, camminate e viaggi in giro per l’Europa! Re-incontriamo anche una coppia di turisti francesi di origini italiane che avevamo già beccato durante il tour del Golden Circle, e con i quali Memole si intrattiene a parlare per diversi minuti; conoscendo il tipo e la sua loquacità, io e Banchetto la trasciniamo a forza lontano dai due turisti, prima che cominci a raccontare loro tutta la sua vita.

Lo spettacolo più bello della giornata è indubbiamente il Glacier Lagoon, un lago ghiacciato in scioglimento. Lo si può costeggiare ammirando le centinaia di gabbiani in volo, o cercando di scorgere i musi delle foche che fanno capolino tra i ghiacci che si staccano dall’immenso ghiacciaio Vatnajokull assumendo le forme più strane e disparate. Nella simpatica e accogliente struttura per turisti che si trova lì vicino faccio fuori due zuppe di pesce sotto gli occhi allibiti dei miei due compagni di viaggio, che invece si limitano ad ingerirne una a testa, e poi ripartiamo in direzione Seydisfiordur, dove alloggeremo la notte.

Il viaggio per arrivare a Seydisfiordur si rivela più duro del previsto: il buon Banchetto infatti chissà quali coordinate imposta sul navigatore, facendoci deviare dalla statale 1 e portandoci su delle strade sterrate e mal messe (più di una volta ho paura che la nostra simpatica Hyundai a noleggio ci abbandoni per via dei troppi scossoni che è costretta a subire): morale della favola, invece di giungere a Seydisfiordur ci ritroviamo in cima a una montagna sperduta nel nulla. L’unica presenza nel raggio di centinaia di chilometri è un capannone prefabbricato in cui una sorta di Dio nordico (il classico “islandese tipo”: grande, grosso, biondo e con la barba, sui trent’anni) che probabilmente trascorre lì la sua esistenza, lavorando la terra e ubriacandosi la sera davanti alla tv, ci salva indicandoci la strada per arrivare a destinazione. Quando lo ringraziamo, ci lascia con una bellissima battuta “almeno sbagliando strada avete visto la vera Islanda!”, e indica con il braccio le immense e deserte montagne che ci circondano.

Ripresa la strada corretta in direzione Seydisfiordur, dopo pochi chilometri la statale 1 si trasforma in un unico, lunghissimo rettilineo: la strada, dritta davanti a noi (e ovviamente deserta) sembra andare a schiantarsi in mezzo alle montagne, che ci circondano da tutti i lati, infinite, altissime; siamo in pratica accerchiati, senza vie d’uscite! Un po’ intimoriti andiamo avanti, ed ecco che la strada comincia a salire: si infila tra le rocce e, dopo una serie ti tornanti, arriviamo in cima alla montagna che si parava davanti a noi: lì ci fermiamo, ammirando il paesaggio dietro di noi (in pratica, la strada che abbiamo appena percorso):  uno scenario magnifico, un’immensa vallata di roccia circondata da montagne altissime su tutti i lati, che all’inizio ci avevano fatto così paura, ma che ora ammiriamo in tutta la loro bellezza.

Ma non è finita qui: un’altra visione magnifica ce la regala l’arrivo a Seydisfiordur. Dopo aver deviato dalla statale 1 infatti, la strada sale verso l’alto in mezzo a una regione completamente innevata; poi, dopo alcuni chilometri, ricomincia a scendere, proprio mentre il sole è calato e la notte ci ha avvolto (a causa della deviazione di cui parlavo prima si sono fatte le 23): a quel punto la strada si apre e, incastonato in mezzo ai fiordi imbiancati che ci circondano, compare Seydisfiordur. Mentre la strada scende verso le luci notturne di questo luogo incantato, io e i miei due compagni restiamo a bocca aperta, senza riuscire a dire nulla: il contesto irreale, la notte e le montagne tutt’intorno, ci tolgono il fiato. Il nostro cottage si trova subito dopo il porto della città: affacciato sul mare, ci permette di gustare il bellissimo panorama offerto dalla piccola città, da un lato il mare, dall’altro le immense montagne dell’estremo oriente dell’Islanda.

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Diario di viaggio Islandese – Parte 1: L’arrivo e Il Golden Circle

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18/04/2014

L’arrivo

L’idea che molti hanno dell’Islanda è quella di un luogo mitico, irraggiungibile, di là del tempo e dello spazio. E, in effetti, l’allucinante viaggio che io e il Banchetto, uno dei miei due compagni di viaggio in quest’avventura (l’altra, Memole, ci attende in Islanda, dove studia da diversi mesi) abbiamo intrapreso per arrivarci, contribuisce a rafforzare quest’idea. Le quasi dodici ore di viaggio, spese prima in volo da Bologna a Londra, poi girovagando come anime in pena per l’aeroporto londinese, infine nuovamente in volo da Londra a Reykjavik (aeroporto di Kefkavik, a una trentina di chilometri dalla capitale) sembrano interminabili; ed è una liberazione vedere finalmente dal finestrino dell’aereo, nel buio della notte (sono ormai passate le 23:00, ora locale) il luccichio della neve d’Islanda. Ad accoglierci all’aeroporto di Kefkavik e a tenerci compagnia lungo il tragitto fino a Reykjavik (che raggiungiamo grazie a delle comode navette) è una tormenta di neve spaventosa; e il ricordo delle parole di Memole (“venite, venite: a fine aprile avremo un tempo stupendo qui in Islanda”) risuona beffardo nella mia testa. Ma Memole, quasi sentendosi in colpa per le avverse condizioni metereologiche con cui l’Islanda ci ha accolto, si fa perdonare accogliendoci calorosamente in terra straniera con un chilo di pasta panna e funghi che io e Banchetto divoriamo come se non ci fosse un domani. Dopo diversi goffi tentativi nel cercare di trovare una disposizione ottimale per la notte, troviamo un compromesso (Memole dorme nel suo letto, io e il Banchetto a terra nei due nostri sacchi a pelo) che ci permette di riposare quasi decentemente nel monolocale di Memole (dico “quasi” percheè durante la notte diverse volte mi ritrovo un piede di Banchetto in bocca, o sono svegliato dal suo strano e inquietante russare). Fuori la tempesta imperversa, ma in fondo chi se ne importa: siamo arrivati in Islanda, il viaggio sta per cominciare.

 

19/04/2014

Il Golden Circle.

Io, Memole e Banchetto ci svegliamo con un tempo che peggiore non potevamo aspettarci: nevica e tira vento nemmeno fosse gennaio inoltrato, non proprio un buon segno per il proseguimento del nostro viaggio (fortunatamente, dal giorno successivo in poi il tempo sarà molto più clemente). Presa una macchina a noleggio, ci accingiamo a fare il tour del cosiddetto “Golden Circle” , una serie di attrazioni e posti meravigliosi dislocati nei dintorni della capitale. La prima tappa è il Parco nazionale di Thingvellir, caratterizzato da muraglie di rocce vulcaniche di là dalle quali si snodano una serie di percorsi che si addentrano nella natura incontaminata, in mezzo a laghi e torrenti; tocca poi alla zona dei Geysir, una distesa di roccia contraddistinta da una serie di aperture nel terreno da cui fuoriescono fumi ed esalazioni; da una in particolare (Strokkur), con una ciclicità di 5 minuti, esplode verso l’altro una quantità d’acqua impressionante, che puntualmente inzuppa i turisti dementi (e io sono uno di quelli) che vi si affollano intorno per le fotografie di rito; vi sono poi le straordinarie cascate di Gullfoss, che ammiriamo in un contesto e in uno scenario da “fine del mondo”, proprio mentre la tempesta di neve raggiunge il suo apice, e il vento gelido sembra sul punto di spazzarci via; infine il Volcano di Keri, un enorme cratere che è possibile scalare e “circumnavigare”, forse l’attrazione più spettacolare ammirata in questa giornata.

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Il pranzo lo prepariamo al sacco (il costo della vita in Islanda è spaventoso, e mangiar fuori è quasi improponibile, per cui ci organizziamo facendo la spesa al supermercato); mangiamo panini con formaggio e carne d’agnello, inconsapevoli che per i prossimi otto giorni mangeremo puntualmente, sempre e incondizionatamente carne d’agnello (al punto che, tornato in Italia, comincerò a emettere i versi di questo simpatico animale).

Le conseguenze di questa prima giornata di viaggio sono devastanti: a Banchetto viene la febbre, e io e Memole lo lasciamo, in preda alle convulsioni, nel suo sacco a pelo verde fosforescente, rinchiuso nel monolocale, e andiamo a prendere una birra (la Bali, tipica birra islandese servita in uno splendido boccale ghiacciato) in un folle pub dedicato al film Il Grande Lebowski. Ma lo spettacolo più allucinante per me resta assistere alla cena di Aliska, ragazza della Repubblica Ceca che quel giorno ha fatto, insieme a me, Memole e Banchetto, il tour del Golden Circle (a scrocco, ovviamente): appena tornata a casa (la stessa guesthouse in cui Memole ci sta gentilmente ospitando), la signorina si prepara un brodino dal colore inquietante con strani cubetti che vi galleggiano all’interno, che accompagna con un’inquietante tisana viola, e infine conclude il pasto con mezzo chilo di spaghetti conditi con tonno, olive e pomodoro.

Pensieri sparsi sulla Romania: Bucovina

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La prima cosa che si pensa quando si giunge in Bucovina è: sono davvero in Europa? La tecnologia e il progresso sono mai arrivati in queste terre?

Le domande sono lecite, in quanto la Bucovina e la Moldova , nel nordest della Romania, sono regioni incontaminate, in cui la gente vive del lavoro del proprio pezzettino di terra, del formaggio prodotto dalle proprie capre, e dove le strade, perennemente dissestate, sono non di rado attraversate da carretti trainati da cavalli.

Le città della Bucovina non sono niente di eccezionale, e Suceava, forse il centro più importante della zona, non fa eccezione: al di là di un percorso nel verde molto bello che porta sino alle rovine di un vecchio castello (che però è abbandonato all’incuria del tempo) e a un museo molto interessante che ricostruisce nei minimi particolari le abitazioni tipiche della popolazione contadina della zona, non c’è davvero nulla. L’unica cosa che merita  di essere visitata è il monastero ortodosso della città, splendidamente affrescato all’interno, che è il preludio allo spettacolo di cui il viaggiatore solitario godrà  girovagando per questa affascinante regione.

Suceava ha infatti il pregio di trovarsi in una posizione strategica ottimale per chi vuole visitare gli splendidi monasteri affrescati della Bucovina, approfittando di qualche tour organizzato o, come nel mio caso, di un insegnante di religione che nei fine settimana arrotonda facendo la guida turistica (un personaggio assurdo con cui mi ha messo in contatto il gestore della pensione dove alloggio). Tralasciando alcuni particolari piuttosto bizzarri (tipo la multa che becchiamo per aver superato di pochi chilometri il ridicolo limite di 50 km orari, o la scoperta che la mia guida si è addirittura laureato in psicologia qualche anno prima), vengo subito al dunque: e cioè allo spettacolo unico dei monasteri ortodossi della Bucovina.

Queste splendide strutture  possono essere associate ad un’unica cosa: la bellezza. E’ infatti il bello la sola cosa cui si può pensare mentre si resta assorti (anche per ore, visto che io, una volta entrato in una di queste chiese, non avrei voluto uscirne mai) ammirando gli affreschi esterni di strutture, immersi in un contesto irreale: in mezzo al verde, in una pace e un silenzio assoluti (se non fosse per il turisti, ovviamente). Gli interni sono altrettanto magnifici: non c’è un solo pezzettino di parete di queste chiese che non sia stato affrescato e disegnato con tanta maestria e tanta bellezza; le immagini della vita di Cristo, di episodi della Bibbia, si alternano e si ripetono in un tripudio di colori che viene ancora più esaltato dall’oscurità e dalle luci soffuse che caratterizzano le chiese ortodosse.

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Pensieri sparsi sulla Romania: Transilvania – Parte 2

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Per Brasov invece la contraddizione sta tutta nella scritta in stile hollywoodiano che campeggia in cima al monte Tampa, che sovrasta la città: un elemento esagerato e fuori posto, che deturpa il contesto scenografico in cui è stato impropriamente collocato. Eppure Brasov è una città affascinante (specialmente di notte) con un centro storico ricco di piccoli gioielli (la strettissima Strada Sforii, ma anche l’imponente Chiesa Nera, o i torrioni e i bastioni che la circondano) e una vista che, dall’alto proprio del monte Tampa, è davvero impareggiabile (la vetta la si può raggiungere o tramite alcuni percorsi a piedi immersi nel verde, di un paio d’ore, o tramite una comoda teleferica).

Nei dintorni di Brasov poi si possono andare a visitare posti bellissimi: lo si può fare con mezzi propri, con tour organizzati o, per chi come me ha avuto la fortuna di alloggiare al Gabriel’s hostel, lo si può fare scortati dal gestore dell’ostello. Gabriel parla 4 lingue, ed è una continua fonte di informazioni: e mentre vi accompagna al convento di Sinaia (splendidi gli affreschi che ne decorano gli interni, sorta di “antipasto” degli spettacolari monasteri  della Bucovina), al castello di Peles (la residenza estiva di Carlo I, tenuto benissimo), a quello di Bran (che ispirò Bram Stoker per il suo Dracula: peccato che sia tutto ricostruito, e che con Vlad Tepes non c’entri una beneamata ceppa), o alla fortezza di Rasnov, vi racconta della storia della Romania, dei suoi re, della leggenda di Vlad Tepes, di un paese che prova a risollevarsi nonostante una situazione economica disastrosa e centinaia di problemi.

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